Sharm el-Sheikh, il summit dello spettacolo: Trump sorride, la Palestina scompare

autore Paolo Guidali

C’è una parola che il mondo ha smesso di pronunciare con convinzione: Palestina.
Non perché sia scomparsa dai dizionari, ma perché è stata cancellata dalla realtà politica, ridotta a un’eco senza corpo, a un nome che nessuno più difende.

Il summit di Sharm el-Sheikh, tenutosi ieri in Egitto, avrebbe dovuto segnare una svolta. Doveva restituire alla Striscia di Gaza una prospettiva dopo mesi di guerra, fame e distruzione.
Invece ha certificato una verità che molti fingono di non vedere: la Palestina non esiste più, se non come entità amministrata, osservata, “ricostruita” da altri.


Un vertice senza i protagonisti

A Sharm el-Sheikh si sono riuniti i grandi della diplomazia, gli alleati occidentali e i mediatori arabi, ma non i rappresentanti reali di un popolo martoriato.
Israele ha scelto di non partecipare ufficialmente, Hamas è stato escluso, e l’Autorità Nazionale Palestinese — unica istituzione riconosciuta a livello internazionale — era presente solo per forma. Invitata a testimoniare, non a decidere.
La sua partecipazione ha avuto il valore simbolico di una firma su un documento già scritto da altri.

Si è parlato di piani di ricostruzione, di “transizione politica”, di fondi per la ripresa economica.
Ma non si è parlato di autodeterminazione, di confini, di sovranità.
Il vertice è diventato una conferenza sulla gestione di una crisi umanitaria, non sul destino di una nazione.

In quella sala egiziana si è consumato, silenziosamente, il funerale politico della Palestina.
Ogni dichiarazione, ogni foto ufficiale, ogni applauso diplomatico ha ribadito lo stesso messaggio: la questione palestinese non è più questione di diritti, ma di ordine.
Si tratta di amministrare un problema, non di risolverlo.


Trump e la diplomazia dello spettacolo

E al centro del palcoscenico non poteva che esserci Donald Trump, tornato in Medio Oriente con il tono del salvatore e l’atteggiamento dell’attore protagonista.
Il summit, nei fatti, è diventato il suo show personale: foto, sorrisi, strette di mano, proclami solenni.
Un linguaggio mediatico studiato per l’opinione pubblica americana, non per le sofferenze palestinesi.

Trump ha parlato di “nuova era di stabilità”, ma non ha mai pronunciato la parola Palestina con il peso politico che merita.
Ha presentato la tregua come un suo successo personale, non come un passo verso la giustizia.
Ha dominato la scena come se la tragedia di Gaza fosse un’occasione di visibilità, trasformando la diplomazia in spettacolo e la crisi in scenografia.

E così, mentre i riflettori si accendevano su Trump, la Palestina spariva dal centro del discorso.
L’attenzione si spostava dalle macerie alle immagini patinate, dal diritto negato alla vanità del leader.
Un summit costruito per la memoria delle telecamere, non per quella della storia.


L’illusione della pace e la realtà della resa

Da anni si ripete la formula “due popoli, due Stati” come un mantra privo di fede.
Eppure, ogni fatto concreto dimostra che quella visione è stata archiviata.
La Palestina non è mai stata più lontana dall’essere Stato, e il mondo non è mai stato più vicino ad accettare che non lo diventi mai.

Le cancellerie occidentali, paralizzate tra prudenza e ipocrisia, hanno trasformato la tragedia in una routine diplomatica: si invocano tregue, si finanziano aiuti, si organizzano summit.
Ma nessuno osa più dire ciò che davvero conta: la libertà di un popolo non può essere sostituita da un piano economico o da un corridoio umanitario.
Senza giustizia politica, ogni pace è solo sospensione del dolore.

Il summit egiziano ha così consacrato un paradigma nuovo e inquietante: la Palestina come spazio di gestione internazionale, controllato e ricostruito da altri, ma privo di identità propria.
È una pace senza popolo, una tregua senza Stato, un futuro deciso da chi non ha perso nulla sotto le bombe.


L’Europa e l’Italia davanti al silenzio

Anche l’Europa — e con essa l’Italia — hanno scelto la strada più comoda: la diplomazia dell’equilibrio.
Un linguaggio misurato, neutrale, incapace di nominare le responsabilità.
Si parla di “dialogo”, di “soluzioni condivise”, ma si evita di ricordare che non esiste più alcuna simmetria tra chi ha il potere e chi ne subisce le conseguenze.
La Palestina non può più difendersi, e l’Europa non vuole difenderla.

Eppure, non è questione di schieramenti, ma di coerenza.
Se il diritto internazionale, la protezione dei civili e la sovranità dei popoli valgono per tutti, devono valere anche per i palestinesi.
Ignorarlo significa accettare che il diritto sia solo un privilegio del più forte.


Un nome da restituire

Il summit di Sharm el-Sheikh resterà nella storia non come inizio della ricostruzione, ma come atto formale della scomparsa.
Il mondo ha trovato il modo di convivere con l’ingiustizia, di darle una cornice diplomatica, di gestirla con sorrisi e protocolli.
Ma nessuna ricostruzione materiale potrà sostituire ciò che è stato distrutto moralmente: l’idea che il popolo palestinese avesse diritto a un futuro, non solo a un tetto di lamiera.

Oggi la Palestina non esiste perché nessuno la riconosce più come soggetto di diritto.
E il silenzio, l’indifferenza e la prudenza del mondo sono le pietre della sua tomba.

Restituirle un nome, una voce, una rappresentanza: ecco la vera ricostruzione che nessun summit vuole discutere.
Tutto il resto — i piani, i fondi, le promesse — sono solo l’amministrazione ordinaria di una scomparsa annunciata.

Hai qualche idea?

Condividi la tua reazione o lascia una risposta rapida: ci piacerebbe sapere cosa ne pensi!

Lascia un commento